I bias cognitivi su soldi e propensione al rischio

Aspetti psicologici, Bias cognitivi | 0 commenti

soldi

Secondo la teoria economica classica, l’uomo è un essere razionale che, posto di fronte a decisioni e rischi, fa un’analisi logica dell’utilità delle varie scelte e poi decide. Insomma, una specie di robot con ottime capacità di calcolo e zero emozioni.

Credo che nella stragrande maggioranza dei miei lettori, se non in tutti, sia evidente come questa visione ottimistica dell’uomo cozzi con la realtà. Eppure, non lo è stato per molti economisti, tanto che a metterla seriamente in discussione è dovuto arrivare uno psicologo, Daniel Kahneman. Il quale, in stretta e lunga collaborazione col suo amico e ricercatore Amos Tversky, ha intrapreso studi nell’ambito della teoria delle scelte verso le opzioni di rischio. Questi lo hanno portato verso un’analisi che tenesse in considerazione – rispetto alle teorie tradizionali – degli aspetti molto più umani e psicologici per planare, infine, a Stoccolma a ricevere il premio Nobel per l’economia.

Visto dalla prospettiva dell’economista classico, l’agente irrazionale delle decisioni descritto da Kahneman e Tversky è, probabilmente, una specie di tonto che si fa ingannare dalle proprie emozioni. Ma si tratta dell’essere umano e, forse, nel fare analisi e previsioni, bisognerebbe tenerne conto. E i sentimenti non sono sempre un intralcio, anzi.

Le descrizioni fatte dagli economisti classici e quelle degli psicologi risultavano talmente differenti che Kahneman stesso sostiene, nel suo libro “pensieri lenti e veloci” che le “due discipline parevano studiare due specie diverse, tanto che in seguito l’economista comportamentale Richard Thaler le soprannominò «gli Econ» e «gli Umani»”.
E immagina dove sta la differenza principale? Già, proprio nel famoso Sistema 1 che abbiamo imparato a conoscere.

Le opzioni di rischio

Partiamo dall’inizio. Innanzitutto, cosa intendo per “teoria delle scelte verso le opzioni di rischio”? Intendo che, nella nostra vita, siamo spesso sottoposti a decisioni che implicano una certa quota di azzardo. In fondo, non esistono scelte sicure, in nessun campo. Non nell’amore, nel lavoro, nelle amicizie, negli affari. Nemmeno i famosi bund tedeschi sono esenti da rischio (già…lo sapevate, vero?).

Quindi, di fatto, quando si fa una scelta, si assume sempre una certa quota di azzardo, piccolo o grande a seconda della situazione. E noi esseri umani, come agiamo di fronte a questa incertezza?

Secondo la “teoria dell’utilità attesa”, le persone si basano sulla logica per definire le opzioni e le loro probabilità di accadere, avere successo, ridurre i rischi. Una volta ponderate con tutti i crismi, fanno la loro scelta. 
Ma sul serio, nella vita reale, funziona così? Beh, in alcuni semplicissimi problemi, questo tendenzialmente accade.

Diciamo che siete ad una fiera, c’è un gioco che vi permette di tirare delle palline su un bersaglio e avete il 10% delle possibilità di vincere un pupazzo giallo o il 10% di possibilità di vincere quello rosa. Dovete decidere prima che premio vorreste, in caso di successo. Chiaro che se preferite il giallo al rosa, chiedete quello.

Ma quante volte vi accade di essere di fronte a scelte così basilari? Poche.
Proviamo, allora, ad entrare in decisioni anche solo leggermente più complesse, dove si devono contrappesare certezze e probabilità. La “prospect theory” (o teoria del prospetto) di Kahneman e Tversky, risponde proprio a questi quesiti.

Bernoulli contro Kahneman

Certamente, un aspetto corretto della “teoria dell’utilità attesa” di Bernoulli (quella in auge nell’economia classica) è che ci spiega che le persone in genere detestano il rischio (la probabilità di ricevere il risultato più basso possibile). Quindi, se viene loro offerta una scelta tra una scommessa e una somma uguale al suo valore atteso, scelgono la cosa sicura. In pratica, se ti dico che ti regalo 900 euro oppure che hai il 90% di probabilità di vincerne mille e il 10% di non vincere nulla, sceglierai i 900 sicuri.
Anzi, di più: se una persona è avversa al rischio si assicurerà volentieri qualcosa di certo dal valore inferiore a quello atteso – basato sulle probabilità – perché accetta di pagare un  premio  pur di evitare l’incertezza.

Tuttavia, diversi aspetti molto reali mancano nelle previsioni di questa teoria. Uno di questi, è il punto di partenza delle persone. Se per Bernoulli la felicità delle persone dovrebbe dipendere dall’utilità della ricchezza, Gianni e Mara, che oggi possiedono entrambi 500.000 euro, dovrebbero essere felici alla stessa maniera. Tuttavia, Gianni ieri aveva 900.000 euro, Mara ne aveva 100.000. Siamo ancora convinti che oggi siano felici in modo equivalente, solo perché la ricchezza è identica? Persino se Mara ne avesse “solo” 200.000, sarebbe più felice di un Gianni che oggi ne avesse 600.000. Sarebbe tre volte tanto il patrimonio di Mara, ma rispetto al suo punto di riferimento si tratterebbe di una grossa perdita, al contrario del punto di riferimento di Mara che avrebbe comunque raddoppiato i suoi averi.

Il punto di riferimento

Il punto di riferimento è, quindi, un elemento essenziale. E non solo nel valutare i risultati economici. La stessa stanza potrà apparire calda o fredda a seconda della temperatura del luogo da cui proveniamo. Il vagito di un bimbo piccolo, che ad un neogenitore può sembrare molto forte, risulterà un suono quasi delicato quando dovrà paragonarlo alle urla del suo bambino che nel frattempo è cresciuto, ha 5 anni ed è molto arrabbiato perché non gli ha comprato il suo giocattolo preferito!

Di conseguenza, anche i rischi che le persone sono disposte ad accettare saranno diversi a seconda della situazione di partenza.
Immagina che Simone possieda 4 milioni di euro e Francesca 1 milione. Gli si pone una scelta di questo tipo: “puoi decidere se tirare la moneta. Se viene testa, finirai per possedere 1 milione, se viene croce, avrai alla fine 4 milioni. In alternativa, puoi optare per una scelta sicura: avere 2 milioni di euro senza fare nulla”.
Bene, senza entrare nei dettagli matematici che qui non ci interessano, se entrambi seguissero solo una scelta razionale, guidata dalle probabilità statistiche, dovrebbero entrambi puntare all’azzardo. Ma questa valutazione non considera i diversi punti di riferimento, appunto. Che porteranno Francesca probabilmente ad accettare la certezza dei 2 milioni (raddoppia il suo patrimonio senza alcun rischio)  e Simone a rischiare, perché per lui la certezza equivarrebbe a dimezzare il suo patrimonio.  Non solo: se la propensione al rischio di Francesca è molto alta, può accettare con una certa serenità anche l’azzardo, perché il suo rischio maggiore è di ritrovarsi con la stessa somma finale, ma con discreta possibilità di incrementarla per 4 volte. Per Simone, invece, è quasi una scelta obbligata quella del rischio. 
Pensare in termini di guadagni o di perdite ha un impatto psicologico molto diverso a seconda delle condizioni da cui si parte, anche se i possibili stati di ricchezza finale cui ci si trova di fronte sono gli stessi.

È da queste riflessioni che nasce, appunto, la “prospect theory” di Kahneman e Tversky che ci spiega come e perché le scelte economiche e di rischio delle persone reali si discostino, in modo sistematico, da quelle previste dalla teoria dell’utilità attesa e del comportamento razionale. 

E ora ti racconto in quali modi.

Il problema della scelta

Di fronte a questi due differenti problemi, quali sarebbero le tue scelte?

Problema 1:
Ricevere sicuramente 900 euro oppure 90 per cento di probabilità di ottenerne 1000

Problema 2:
Perdere sicuramente 900 euro oppure 90 per cento di probabilità di perderne 1000

Quasi certamente, come la stragrande maggioranza delle persone negli esperimenti di questo tipo, ti sarai mostrato avverso al rischio nel problema 1. Da un punto di vista soggettivo, il guadagno certo di 900 euro ha un valore sicuramente maggiore del 90 per cento del valore di un guadagno di 1000 euro. Qui entra in gioco la paura della perdita.

Passiamo però alla scelta 2. In  questa opzione, se sei come la maggioranza delle persone, scegli l’azzardo invece che la certezza. Perché il valore (negativo) di perdere 900 euro è psicologicamente molto maggiore del 90 per cento del valore (negativo) di perderne 1000. La perdita sicura è qualcosa da cui fuggiamo e che ci spinge a correre il rischio.
La gente diventa favorevole all’azzardo quando tutte le opzioni sono negative.

I nostri atteggiamenti verso i guadagni e le perdite non derivano dalla valutazione che facciamo della nostra ricchezza. Il fatto che ci piaccia l’idea di guadagnare cento euro e odiamo quella di perderne altrettanti non è perché questa somma ci cambi il nostro stato economico. Semplicemente, vogliamo vincere e detestiamo perdere; e lo detestiamo più di quanto amiamo vincere.

I pilastri della teoria del prospetto

Al centro della teoria del prospetto vi sono tre caratteristiche cognitive che svolgono un ruolo fondamentale nella valutazione dei risultati finanziari. E che sono comuni a molti processi automatici tipici del Sistema 1.

  • La valutazione che facciamo delle cose (non solo economiche) è relativa a un punto di riferimento neutro, ad un «livello di adattamento». È il discorso che ti facevo sulla temperatura di una stanza che sentiremo diversamente se veniamo da un ambiente molto più freddo (ci sembrerà calda) o molto più caldo (ci sembrerà fresca). Per i temi finanziari, il punto di riferimento di solito è lo status quo, ciò da cui parti. Ma in alcuni casi può anche essere il risultato che ti aspetti o magari quello cui ritieni di avere diritto, come nel caso di un aumento atteso della retribuzione o un bonus che hanno ricevuto i tuoi colleghi. Ovviamente, i risultati che sono migliori dei punti di riferimento sono considerati guadagni, quelli al di sotto, perdite.
  • All’aumentare delle grandezze, diminuisce la sensibilità alla variazione. Questo è vero sia per le dimensioni sensoriali sia per la valutazione dei cambiamenti di ricchezza. Mi spiego meglio: una musica con un’intensità debole ha un grande effetto in una stanza totalmente silenziosa, mentre lo stesso incremento di intensità sonora non viene forse neanche rilevato in una stanza molto rumorosa. Nello stesso modo, la differenza soggettiva tra 900 e 1000 dollari è molto più piccola della differenza tra 100 e 200 dollari. L’unità assoluta è uguale (100), ma è il punto da cui parti che è diverso.
  • Se confrontate direttamente o valutate  l’una  rispetto  all’altra,  le  perdite  appaiono  molto  più grandi dei guadagni. Questa differenza nel considerare le esperienze positive e negative ha un senso evolutivo. Infatti, gli organismi che trattano le minacce come più urgenti delle opportunità riescono con più probabilità a sopravvivere e riprodursi.

La funzione di valore

Graficamente, la differenza nel significato psicologico dei guadagni e delle perdite si rappresenta con una curva a forma di S che mostra una sensibilità decrescente sia per i guadagni sia per le perdite. Ma le due curve, a destra e a sinistra di un punto neutro di riferimento (quindi: guadagni o perdite) non sono simmetriche. La pendenza della funzione cambia nel punto di riferimento. Tradotto dalla matematica, significa che la risposta alle perdite è più forte della risposta ai guadagni corrispondenti: la cosiddetta “avversione alla perdita”.
Guardando l’immagine, vedi che guadagnare 100 euro procura un piacere di 1,5, mentre perdere 100 euro procura un dolore doppio (i  numeri e la figura sono solo esemplificativi).

Curva della funzione di valore (immagine esemplificativa).

Avversione alla perdita

Molte delle situazioni della vita che richiedono una scelta sono «miste»: vi è un rischio di perdita e un’opportunità di guadagno e dobbiamo decidere se accettare o rifiutare l’azzardo. Quando valutiamo un investimento, se intraprendere una causa, cambiare lavoro e così via, siamo di fronte a possibilità di miglioramento o peggioramento.

Diciamo che ti viene proposta una scelta legata al lancio di una moneta. Se viene croce, perdi 100 euro.
Se viene testa, ne vinci 150.
Che fai?

Per decidere, devi confrontare il beneficio psicologico di vincere 150 euro rispetto al costo psicologico di perderne 100. Il valore atteso dell’azzardo è positivo, perché  hai  la probabilità di vincere una somma maggiore di quella che perderesti. Nonostante questo, probabilmente non ti piacerà, come capita alla maggior parte della gente.

Il rapporto perdite/guadagni

L’avversione al rischio di perdere 100 euro è più forte della speranza di guadagnarne 150. Questo perché psicologicamente le perdite sembrano più grandi dei guadagni e la gente è avversa alla perdita.
Allora nasce un’altra domanda: qual è il risultato positivo minimo che mi ci vorrebbe per accettare il rischio e compensare un’uguale probabilità di perdere 100 euro? Per molti la risposta è il doppio della perdita (200 euro, in questo caso), anche se in generale è un rapporto che oscilla fra 1,5 e 2,5. Ed è un numero che può cambiare anche sulla base di quanto sei, per lavoro, abituato ad assumerti rischi. I professionisti dei mercati finanziari, ad esempio, tollerano maggiormente le perdite. Questo perché sono più abituati a non reagire emotivamente ad ogni fluttuazione (altrimenti, l’infarto sarebbe assicurato!). Pensa che in un esperimento fu chiesto ai partecipanti di «pensare come trader»; ebbene, essi diventarono meno avversi alla perdita e la loro reazione emozionale alla stessa si ridusse notevolmente.

L’importanza della posta in gioco

Inoltre, l’avversione alla perdita tende leggermente ad aumentare a mano a mano che cresce la posta in gioco. Cioè, più la possibile perdita rischia di essere rovinosa per te, più inciderà il timore di uscire sconfitti. Fino ad un livello in cui l’avversione alla perdita sarà totale, perché nessuna possibile vittoria potrebbe compensare un rischio troppo alto. Ovviamente, questo discorso generale non vale per chi ha dipendenze da gioco, ma questa è un’altra storia.

Perdita certa contro perdita probabile

Nelle opzioni miste, dove c’è sia la probabilità di guadagno che quella di riduzione del patrimonio, le persone sono estremamente avverse al rischio per la paura di vedere diminuire i loro soldi (anche quando il guadagno possibile è superiore alla perdita possibile). Allo stesso tempo, si diventa a favore del rischio se messi di fronte ad una perdita certa contro una più grande, ma solo probabile (ti ricordi Francesca e Simone?).
Anche questo viene spiegato con la curva della funzione del valore vista più sopra. Dall’immagine, vediamo due cose importanti: la curva cambia la sua pendenza nel punto in cui i guadagni diventano perdite. Questo significa, semplicemente, che siamo molto avversi alla perdita persino quando risulta minima rispetto alla nostra ricchezza. Di fatto, non ci piace lasciare andare ciò che è nostro, a meno che non ne valga davvero tanto la pena. In secondo luogo, mano a mano che si scende (quindi che la perdita diventa importante) la curva si fa meno ripida; ciò significa che la nostra sensibilità alla riduzione del patrimonio diminuisce.

L’effetto dotazione

Attenzione: tutte queste riflessioni che abbiamo fatto non riguardano necessariamente solo i soldi, ma tutto ciò a cui noi diamo un valore. Anche una scelta legata al rimetterci giorni di ferie può rientrare fra i rischi che abbiamo timore di affrontare.
Quello che possiamo dedurre in generale è che, nelle decisioni che implicano soldi, ma anche dotazioni di valore per noi, le scelte non hanno lo stesso valore per tutti. Dipendono, invece, dal tuo punto di riferimento, da ciò a cui sei abituato, dal tuo status quo.
In pratica, anche in ambiti differenti dalle scommesse sui soldi, gli svantaggi di un cambiamento appaiono più grandi dei suoi vantaggi, inducendo un bias che favorisce lo status quo.

Facciamo un esempio banale: diciamo che lavori dal lunedì al venerdì e guadagni 100 euro al giorno che , per il luogo in cui vivi, ti sono sufficienti per stare bene, togliendoti anche i tuoi sfizi. Probabilmente, se ti offrono di lavorare un giorno in più a settimana, rinunciando ad uno dei due giorni di stacco, per darti 100 euro in più, non ti sembrerà un cambio corretto. Avresti bisogno di molto di più di 100 euro per compensare quella che rappresenta una perdita dal punto di vista del tuo punto di riferimento.

Questo non significa che noi siamo sempre avversi ai cambiamenti. Solo che i benefici del cambio non devono essere paragonabili alla perdita, ma essere proporzionalmente molto più grandi.

Insomma, l’”effetto dotazione” è un bias molto forte a favore della nostra situazione attuale.

Faresti a cambio?

Richard Thaler, il teorico della “spinta gentile”, trovò diversi esempi di questo effetto. Una situazione che potresti avere sperimentato una volta nella vita è quella di essere in possesso del biglietto per il concerto del tuo cantante preferito. Immaginiamo che tu abbia pagato 100 euro il biglietto. Ma per te non importa; ne sei così affascinato che avresti speso anche fino a 250 euro pur di poterlo vedere dal vivo.
Evidentemente, non sei l’unico che lo adora. I suoi biglietti sono andati a ruba e ora i fan disperati, che non sono riusciti ad accaparrarsene uno, sono disposti a pagarlo anche 1500 euro per averlo. Glielo venderesti? Se veramente sei un amante sfegatato di quel cantante e lo segui regolarmente, conosci tutte le sue canzoni a memoria e lo adori, probabilmente no. Inizieresti a pensarci da una cifra nettamente superiore. Il tuo acquisto vale 100, emotivamente e soggettivamente saresti disposto a spenderne fino a 250, eppure non lo vendi neanche per 1500. Perché? Per l’effetto dotazione, un motivo che la teoria economica classica non prevede assolutamente. Ma noi siamo esseri umani, non macchine.

La prospect theory, da cui discende questo effetto, ci spiega che la disposizione a comprare o vendere un biglietto dipende dal punto di riferimento, cioè dal fatto di possederlo o meno in quel momento. Avercelo comporta anche di prendere in considerazione il dolore nel perderlo che risulta comunque molto maggiore al piacere di procurarselo. Il che spiega la differenza 250/più di 1500. Ed è spiegato matematicamente anche dal grafico della funzione di valore: la pendenza della funzione è più ripida nel quadrante negativo; la risposta a una perdita è più forte della risposta a un guadagno corrispondente.
Aggiungiamoci che, in questo caso, c’è un attaccamento emotivo molto forte che aumenta ulteriormente l’avversione alla perdita.

E allora, ti chiederai: perché quando mi compro un vestito da 100 euro non soffro nel pagarlo ( a meno che tu non sia una persona tirchia, ovviamente ;-))? Non dovrei avere questa avversione alla perdita rispetto al mio status quo? No. La differenza sta nel fatto che quei beni sono fatti apposta per essere scambiati. Il senso del cambio soldi/vestito, nel caso in cui questo sia venduto al suo giusto prezzo, per te ha lo stesso valore del cambio 100 euro con dieci banconote da 10 euro. È una sostituzione di valore corrispondente. E, allo stesso modo, il commerciante è ben felice di dartele perché quella merce è stata acquistata per essere scambiata con soldi.
Invece, altri beni, come il tuo biglietto del concerto, ma anche il tuo tempo libero o il tuo tenore di vita non sono destinati ad essere scambiati, ma ad essere vissuti e goduti a pieno. Hanno un valore diverso, soprattutto dopo che li possiedi. Queste differenze non razionali e non rispondenti alle teorie economiche classiche, ci fanno capire che l’avversione alla perdita fa parte del Sistema 1.

Le variabili che influiscono sull’effetto dotazione

Su queste basi sono stati fatti moltissimi esperimenti e tutti dimostravano che il valore attribuito ad un bene posseduto e che si pensa di utilizzare (non di usare come “moneta di scambio”) era superiore al suo valore reale.

Il neuroimaging conferma la differenza fra bene considerato per lo scambio e bene posseduto per altre destinazioni d’uso. Vendere oggetti che di norma si usano attiva regioni cerebrali associate al disgusto e al dolore. Anche comprarli attiva le medesime aree, ma solo se i prezzi sono percepiti come troppo alti,  cioè quando si ritiene che il venditore stia chiedendo una somma non in linea con il valore di mercato. Analogamente, le scansioni cerebrali mostrano come comprare a prezzi particolarmente bassi (rispetto a quelli ritenuti corretti) sia un evento piacevole.
Probabilmente la cosa non ti sorprenderà, se hai in mente le immagini di folle scalmanate che corrono per accaparrarsi qualcosa in svendita.

Anche a te è forse capitato di vedere l’effetto dotazione in azione incontrando una persona che cerca di vendere casa sua ad un prezzo non di mercato.
L’effetto dotazione, fra l’altro, è influenzato da alcune variabili. Una di queste è il tempo durante il quale si è posseduto un bene (più è alto, più aumenta la richiesta di soldi per lo scambio). Un altro è l’esperienza o meno della persona ad utilizzare quei beni come scambio. Se sei un investitore in beni immobili, sarai più propenso a vendere la casa al suo giusto valore che non intestardirti a venderla ad un prezzo maggiore. Perché? Torniamo al punto di cui sopra: perché per te quella casa ha un valore di scambio, non di uso. 
Altre variabili che influenzano sono le differenze culturali in merito al denaro o l’atteggiamento personale su questo tema (che dipende, a sua volta, dalle tue esperienze personali e dal tuo microcosmo educativo) .

I poveri sono privi dell’effetto dotazione

Addirittura, l’effetto dotazione non si riscontra nelle fasce di popolazione povera.
Perché? Perché essere poveri, secondo la prospect theory, significa vivere al di sotto del proprio punto di riferimento. Vi sono beni che i poveri non si possono permettere, pur avendone bisogno, perciò sono sempre «in perdita». Le minime somme di denaro che entrano, quindi, non sono vissute come un guadagno, ma come una riduzione della perdita. Tutte le loro scelte sono tra un ammanco e l’altro. Il denaro che è speso per un bene significa la perdita di un altro bene che avrebbe potuto essere acquistato al suo posto. Di fatto, le loro transazioni avvengono sempre nel quadrante di riferimento della perdita e non sono un confronto fra quello del guadagno e quello della perdita. La parte di curva su cui si incide è sempre la stessa, non un raffronto fra due curve con diversa pendenza.

Cosa c’entra con l’innovazione?

Torniamo al nostro punto centrale: l’innovazione. Cosa c’entrano questi temi con l’innovazione?
Prima di tutto, come sai se mi segui, credo che una mente innovativa e brillante debba essere abituata a conoscere se stessa e ad individuare i propri inganni. Questo porta sicuramente ad avere più consapevolezza e a contrastare i meccanismi del Sistema 1, laddove ci porti possibili svantaggi.

Ma c’è un aspetto che è anche più direttamente collegato.
Chi fa innovazione è una persona che deve affrontare il rischio. Creare qualcosa di originale, scoprire un nuovo mercato, modificare elementi già acquisiti per portare novità comporta degli azzardi. A volte anche grandi. Che incidono sui risultati economici e mettono in discussione lo status quo.
Eliminare del tutto la nostra avversione alla perdita, così come tutti i meccanismi governati dal Sistema 1, è spesso un’impresa impossibile; ma si possono ridurne gli effetti e riuscire a controbilanciarli maggiormente con scelte ponderate. Questo, a patto di ridurre l’incidenza di aspetti psicologici che potrebbero limitare la nostra propensione al rischio anche laddove convenga. E tale capacità è certamente un bene per chi ha scelto, nella vita, di esporsi per progredire.

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