
Quante volte ti è capitato di provare a scherzare in una situazione di lavoro in cui si stavano cercando delle risposte ad un problema e sentirti dire: “non è il momento di fare battute” o “non siamo qui per giocare”? E se, invece, fosse la soluzione giusta?
Troppo spesso sul lavoro si prendono le cose in maniera eccessivamente seria, razionale, logica, sottovalutando, se non denigrando proprio, il valore del divertimento e del gioco non solo nel creare migliori relazioni (che, già di per sé, aiuta non poco a determinare un clima adatto all’innovazione) ma anche nel liberare creatività e ideazione. In una parola: innovare.
Non è un caso se il gioco rappresenta una delle modalità migliori attraverso cui il piccolo essere umano apprende, impara, cresce. L’errore, semmai, è stato quello di considerarlo essenziale solo per i più piccoli senza riconoscergli degli aspetti fondamentali per l’apprendimento e lo sviluppo a qualsiasi età.
Errore sicuramente ridimensionato grazie agli studi, nel tempo, dei miei colleghi psicologi, purtroppo spesso sconosciuti alla maggior parte di chi, invece, nelle imprese deve occuparsi di innovazione.
D’altra parte, il mercato del gaming è fiorente e, solo in Italia, muove 2 miliardi di euro.
Qualcosa potrebbe volerlo dire.
L’istinto del gioco
C’è un istinto profondamente umano nel volere giocare. E poiché gli istinti umani sono solitamente “costruiti” con l’obiettivo di aiutare la persona a svilupparsi e sopravvivere, ne possiamo dedurre che il gioco abbia una funzione altamente evolutiva[1]. Non dimentichiamo, poi, che è diffuso presso tutte le popolazioni, quindi è una sorta di linguaggio universale. Anche questo ci conferma quanto sia utile per lo sviluppo umano.
Le scoperte neuroscientifiche hanno dimostrato che nella pratica del gioco sono coinvolti alcuni istinti primari come il bisogno di auto espressione e la volontà di porsi delle sfide e di superarle. In questo modo si determina coinvolgimento e motivazione al raggiungimento degli obiettivi richiesti.
Esso, infatti, permette in un colpo solo di attivare diverse competenze fondamentali (oltre, naturalmente, ad aiutare l’altrettanto necessario “riposo” da attività faticose che aiuta a ricaricare le energie, essenziale ogni volta che si debba creare qualcosa). Nel momento ludico, infatti, si azionano ed esercitano contemporaneamente diverse funzioni cognitive importanti come attenzione, memoria, pensiero.
Giocare per lavorare e apprendere meglio
Non solo: il gioco, spesso, si basa su un insieme di regole condivise che definiscono il contesto, gli obiettivi e le forme della competizione. Pur esercitandosi in un ambiente immaginativo, sono tutti aspetti fondamentali anche in ambienti lavorativi. Tanto più se viene richiesto di innovare, processo che richiede di unire in un equilibrio sapiente la parte ideativa e creativa con quella più razionale legata a regolamenti, elementi tecnici, limiti di fattibilità, organizzazione.
Per questo, nel tempo, si sta facendo sempre più largo l’istituzionalizzazione del contributo che il gioco può apportare al lavoro, soprattutto nella sua parte di formazione/apprendimento e/o creazione del nuovo. Come? Attraverso la pratica della gamification.
Cos’è la gamification
Si tratta, in sostanza, di utilizzare elementi mutuati dai giochi e dalle tecniche di game design in contesti esterni ai giochi.
La gamification trasporta regole e strategie tipiche del mondo ludico in altri ambienti, come quello del marketing o della formazione. Diventa così possibile, quindi, sfruttare il divertimento del gioco per ingaggiare attivamente le persone in un sistema immaginario che fa uso di problemi e soluzioni/risultati da raggiungere in un ambito caratterizzato da alcune regole (vi ricorda qualcosa della vita comune e del mondo del lavoro? ;-)).
Si ha quindi la possibilità di esercitare caratteristiche fondamentali come il problem solving, il pensiero laterale, la focalizzazione ed altre ancora in una situazione ad alto coinvolgimento emotivo che stimola maggiormente l’apprendimento di capacità che possano poi essere trasferite e sfruttate anche in contesti differenti, come quello del lavoro.
Trasferimento che, spesso, viene agevolato dal fatto di utilizzare problemi immaginari o tecniche ludiche comunque collegati all’ambito professionale in cui si vogliono sviluppare le competenze.
Si possono, ad esempio, ridisegnare alcuni processi lavorativi attraverso meccanismi di gioco per rendere attività ripetitive più piacevoli ed accattivanti.
I primi esperimenti sulla gamification nascono intorno agli anni 2000 negli Stati Uniti con lo scopo di creare ambienti gradevoli e divertenti per aiutare i dipendenti a lavorare meglio.
Ovviamente, l’obiettivo non è giocare al lavoro, ma sfruttare elementi del gioco all’interno di un contesto differente per renderlo più accattivante, motivante e produttivo.
I falsi miti della gamification
Sgombriamo intanto il campo da alcuni pensieri errati sull’uso della ludicizzazione. Ad esempio:
- Gamificare significa creare un gioco. Sbagliato: gamification è utilizzare alcuni elementi del game design in contesti differenti dal gioco. Non si usano quindi tutti, altrimenti si tratterebbe di un vero e proprio gioco.
- L’obiettivo è aumentare il divertimento. In realtà, i fini sono ben più complessi. Certo, aumentare il divertimento è un effetto naturale, ma il fine primario è quello di modificare le performance, l’atteggiamento mentale, definire, migliorare ed orientare i comportamenti, ecc. E questo è sicuramente più semplice se, nel frattempo, creo coinvolgimento.
- Per gamificare, basta inserire una gara, creare punti o aggiungere un elemento di gioco. Questa è una visione molto riduttiva che, di certo, non ci permetterebbe di raggiungere lo scopo. Ludicizzare non è buttare elementi a caso, ma conoscere le giuste meccaniche, il pubblico a cui è diretto, l’obiettivo che ci si pone ed implementare gli aspetti adatti per ottenere il fine preposto.
- La gamification si può fare solo con la tecnologia. Non è vero, anche se, sicuramente, il digitale ha aumentato strumenti e piattaforme dove utilizzarla. Ma questa si può ottenere anche con metodi e supporti meno nuovi, perché la gamification è una metodologia implementabile indipendentemente dal tipo di supporto che si usa. E il gioco è sempre esistito anche prima del digitale.
- Funziona solo sui giovani. Proprio perché gamification non coincide con tecnologia, non è riservata ai giovani. Anzi, l’elemento ludico è adatto a tutti sia perché il digitale non è strettamente necessario per la ludicizzazione sia perché, ormai, tutti siamo più o meno digitalizzati.
Le leve motivazionali del gioco
Quindi, il gioco è un istinto e, attraverso di esso, sviluppiamo delle competenze e abilità. Secondo Yu-kai Chou, un pioniere in questo settore, siamo spinti a giocare da 8 leve motivazionali, che lui chiama “core drives”. Li ha condensati in una sistema chiamato Octalysis nel quale sono rappresentati questi “universali” della spinta ludica.
Quali sono?
- Epic meaning and calling: quando una persona sente di essere stata chiamata a qualcosa di più grande di se stessa o di essere stata “scelta” per qualcosa di importante;
- Development and Accomplishment: dato da un senso di crescita verso un obiettivo e il suo raggiungimento;
- Empowerment of creativity and feedback: quando ci si sente coinvolti in un processo creativo in cui si scoprono nuovi aspetti e/o creano nuove combinazioni;
- Ownership and possession: la percezione di possedere o controllare qualcosa;
- Social influence and relatedness: corrisponde a tutti gli elementi sociali che motivano le persone. Dall’accettazione sociale, alla relazione fino anche a competizione ed invidia;
- Scarcity and impatience: ciò che ci spinge a volere qualcosa solo perché è rara, esclusiva o difficilmente ottenibile;
- Unpredictability and curiosity: è alla base del coinvolgimento, poiché non si sa che cosa ci attende nel passaggio successivo;
- Loss and Avoidance: è l’istinto ad evitare qualcosa di negativo o di perdere qualcosa di positivo.
A tali leve motivazionali presenti in noi corrispondono, sul piano del game design, delle meccaniche di gioco. Cioè delle tecniche che vengono impiegate nella costruzione di giochi allo scopo di sollecitare proprio questi istinti.
Le meccaniche nella gamification
Le meccaniche non si utilizzano tutte insieme ma, a seconda degli obiettivi, del contesto, delle persone a cui applicarle, si può scegliere la migliore combinazioni da inserire. Servono a regolare le azioni interne e consentono di creare un’esperienza coinvolgente.
Di fatto, sono gli strumenti e le logiche che permettono alla persona di raggiungere il suo obiettivo.
Le meccaniche principali sono:
- punti o crediti: rappresentano la ricompensa immediata per le azioni del giocatore e ne indicano la bravura e le capacità;
- sulla base dei punti si determinano le classifiche. In questo modo, si ordinano e confrontano le performance degli utenti, così da favorire la competizione. Devono infatti motivare a proseguire l’attività senza scoraggiare gli utenti meno competitivi;
- i livelli: servono ad introdurre obiettivi progressivi da raggiungere e rappresentano un’esperienza comune; tutta la nostra vita è un passaggio ad una fase successiva di apprendimento (nella scuola, nel lavoro, nello sport, ecc.). Indicano i risultati ottenuti e motivano l’utente a raggiungere un determinato obiettivo;
- badges (o medaglie): rappresentano il raggiungimento di un traguardo e hanno un doppio scopo. Da una parte motivano grazie ad un fine da raggiungere e, dall’altro, rappresentano un indicatore sociale di padronanza di un’abilità (sollecitando alla competizione);
- Premi e ricompense: sono forti motivatori per una determinata azione. Fisici o virtuali possono essere di diversi tipi così da stimolare interessi differenti degli utenti;
- le sfide: sono problemi e ostacoli che il giocatore deve superare per ottenere punti, medaglie o avanzare di livello;
- i beni virtuali: rappresentano qualcosa di valore per il giocatore all’interno del mondo virtuale del gioco che è possibile guadagnare giocando o acquistare in cambio di denaro reale.
Meccaniche, utenti e obiettivi
Adattarle agli obiettivi che ci si pone non è banale. Non basta introdurre qualche meccanica qua e là che renda divertente l’esperienza, ma si deve scegliere adeguatamente sulla base degli utenti e degli scopi o si rischierà di avere risultati scadenti e poco coinvolgimento.
Non solo i fini non sono tutti uguali, ma neanche i giocatori lo sono. Per questo, idealmente, bisognerebbe conoscere anche il tipo di utente a cui ci rivolgiamo. Cosa forse più semplice nel mondo specifico del gaming; ma quando il gioco va introdotto in contesto differente (ad esempio nell’industria) non abbiamo molti elementi per capire che tipo di giocatori siano presenti fra i dipendenti a cui si offre, ad esempio, un’esperienza formativa.
I diversi tipi di giocatori
Se Yu-kai Chou identifica le leve motivazionali intrinseche nei giochi, Bartle ci spiega che non tutti siamo uguali e quello che motiva l’uno può essere meno stimolante per l’altro. Quindi, alla conoscenza delle otto spinte di base, è bene accostare la conoscenza dei 4 profili dei giocatori sulla base dei loro tratti di personalità e del loro approccio all’esperienza ludica. Sulla base di questo, poi, definire gli obiettivi e le dinamiche adatte e maggiormente stimolanti.
In realtà, tutti e 4 i tipi sono presenti in ciascuno di noi, ma in diverse proporzioni.
I 4 tipi di Bartle
- Achiever: è la persona d’azione, che vuole collezionare vittorie, ottenere risultati, raggiungere traguardi prima degli altri. La sua psicologia si basa principalmente sull’ostentare i successi ottenuti. Per lui classifiche, premi, riconoscimenti sono essenziali;
- Explorer: ama esplorare ogni dettaglio del gioco e dell’ambiente in cui si muove. L’obiettivo è scoprire e avere nuove conoscenze. È più legato all’esperienza emotiva di coinvolgimento nel gioco (o nell’attività, in caso di gamification). Per lui l’ambiente è fondamentale: dettagli, elementi segreti, trucchi da scoprire, livelli personalizzati lo stimolano molto;
- Socializer: è più interessato a socializzare, ad essere in relazione con gli altri, ad avere informazioni su di loro più che a raggiungere determinati obiettivi. Condivisione e collaborazione sono gli elementi che lo sollecitano. Le relazioni che tesse con gli altri sono alla base dell’esperienza ludica, quindi ama l’ambiente multiplayer, non confrontarsi da solo;
- Killer: è interessato solo ad uccidere gli avversari, alla supremazia nello scontro, nella battaglia. È il tipo meno rappresentato e si pone agli antipodi del socializer. Gioca solo per sé e vuole arrivare in cima a tutti i costi. Le sfide sono per lui molto ingaggianti.
Per una buona progettazione della gamification, della trasposizione del gioco in contesti differenti, è quindi essenziale conoscere i tipi maggiormente rappresentati fra gli utenti a cui ci si rivolge. Definire meccaniche di gioco adatte ad un killer in una platea di socializer – e viceversa – potrebbe portare ad un clamoroso fallimento.
Come scoprirlo? Bartle ha creato un test apposito[2] (lo so, stai per andare a controllare che tipo di giocatore sei ;-))
I settori di applicazione della gamification
I contesti in cui potere applicare la gamification sono i più vari: studio di una materia, applicazioni sociali, marketing, sviluppo di nuovi prodotti, risoluzione di problemi di lavoro, selezione del personale, ecc.
In un certo senso, non esiste ambito in cui non si possa utilizzare per raggiungere gli obiettivi che ci si pone in modo più facile, ingaggiando l’utente finale in maniera decisamente più intensa e piacevole anche per lui.
La gamification in Italia e nel mondo
La gamification è da tempo ampiamente utilizzata. Se in certi contesti (come il marketing) è diventata esperienza comune, in altri si fa mano a mano strada (formazione), in alcuni (sociale e culturale) ha iniziato a prendere piede solo più recentemente.
Vediamo alcuni esempi pratici.
Tuomuseo
Tuomuseo è un’associazione culturale che lavora nell’intersezione tra arte e videogiochi. L’obiettivo è di supportare le istituzioni pubbliche e private nella progettazione e realizzazione di modalità di coinvolgimento del pubblico nella fruizione dei beni culturali. Attraverso la gamification si può rendere più partecipativa e divertente l’esperienza in cui l’utente diventa parte attiva e co-protagonista della stessa. In questo modo, il patrimonio culturale viene esaltato e reso più interessante dalle nuove modalità di interazione.
Spesso serious games o edugames sono pensati più per un pubblico di giovanissimi.
Minecraft per musei e turismo
Minecraft è un videogioco realizzato nel 2009 da un gruppo di sviluppatori indipendenti che è stato poi acquistato da Microsoft. Rappresenta un mondo virtuale aperto in cui è possibile creare e modificare ogni oggetto e ambiente seguendo la propria creatività. Immaginate una specie di LEGO in digitale, dove è possibile ricostruire attraverso cubi di pixel qualsiasi cosa (città, ponti, foreste, ecc.) e condividerla con gli altri giocatori in una realtà in continua evoluzione.
È stato spesso usato per riproduzioni di città o di intere nazioni. Poiché farlo richiede competenze di vario tipo (matematica, geometria, geografia, storia), Microsoft ha lanciato una speciale versione chiamata “educational” che sta entrando anche nelle scuole come strumento didattico. E, naturalmente, è stata sfruttata anche per musei e istituzioni culturali.
Ad esempio, alla Tate di Londra, con il titolo Tate Worlds, furono create mappe che presentavano ambienti virtuali ispirati dai capolavori presenti nel museo. Ci si poteva tuffare in mondi immaginari ispirati da dipinti famosi o affrontare sfide collegate con i temi di opere d’arte ed esplorare come fossero state create.
Un modo per raccontare l’arte rendendola coinvolgente ed interattiva anche da parte dei giovani.
Un altro progetto, sempre nella capitale britannica, fu Great fire 1666 del Museo di Londra che, in occasione dei 350 anni dal grande incendio che stravolse la città, realizzò una mostra speciale. Furono create in chiave digitale tre mappe Minecraft per consentire ai giocatori mondiali di vivere Londra prima, durante e dopo i giorni dell’incendio.
Qualcosa di simile fu il progetto Gallipoli Minecraft dell’Auckland Museum in Nuova Zelanda, dove vennero ricostruiti gli avvenimenti della battaglia di Gallipoli durante la prima guerra mondiale in Turchia.
Duolinguo
Ma la gamification non viene usata solo per l’arte. Un altro esperimento riuscitissimo fu la sua applicazione allo studio delle lingue con Duolingo.
Si tratta di una app gratuita per imparare una lingua straniera tramite quiz divertenti. Attraverso tali test progredisci ai livelli successivi tramite un sistema di ricompense. In questo modo, gli utenti imparano più velocemente perché sono più coinvolti rispetto ad un normale corso di lingua e più motivati a terminare tutti i livelli.
Prodigy Math
Ma persino la matematica può diventare divertente se si usa la gamification. Prodigy Math è un altro esempio di gamification applicato allo studio di una materia. I giovani studenti potranno partecipare a dei giochi di ruolo con combattimenti che possono essere portati a termine grazie ad enigmi matematici più o meno complessi sulla base del livello dello studente.
Tesla
Infine, Tesla, ha inserito delle Easter Eggs nel suo sistema di infotainment. In pratica, dei giochi e divertimenti a sorpresa, software nascosti attivabili con delle procedure segrete che vengono scoperte per caso, mentre l’utente sta facendo altro. Un certo tipo di movimento del cursore, ad esempio, potrebbe attivare un gioco Atari degli anni ’80.
Siamo così arrivati alla fine di questa estrema sintesi (sì, l’articolo è lungo, ma la gamification è molto più complessa di così!).
Se conosci altri esempi interessanti di applicazioni concrete oltre a quelle già elencate, condividile nei commenti!
[1] Per un rapido approfondimento dell’importanza del gioco nello sviluppo della mente, si veda “Giocare, un’esigenza della mente”, Quaglia R., International Journal of Developmental and Educational Psychology,
INFAD Revista de Psicología, Nº1-Vol.1, 2006. pp. 71-78: https://www.redalyc.org/pdf/3498/349832311045.pdf
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