
Immagino che ti sarà capitato, una o più volte nella vita, che ti abbiano chiesto se sei felice. O cosa potrebbe renderti tale. Forse, addirittura, te lo sei chiesto tu stesso.
Presuppongo tu abbia dato una risposta alla prima domanda, magari definita con un numero. Oppure, alla seconda, hai fantasticato quella bella casa o macchina nuova, un diverso posto di lavoro, dei figli e così via. Convinto di avere fatto una stima attendibile sia del tuo livello di felicità sia di quello che ti manca.
Ma, forse, hai sbagliato. Quello che percepisci realmente e quello che pensi di avere percepito non sono la stessa cosa.
[P.S.: se ti interessa il tema dei bias, trovi tutti i miei articoli qui: bias cognitivi].
Misurare piacere e dolore
Partiamo da qui: come si possono misurare la propria esperienza e il piacere/dispiacere che ci procura (anche detta ”utilità esperita”)?
Come risponderesti a domande come «quanto piacere hai provato la scorsa domenica in spiaggia?» o «quanto dolore hai provato nell’intervento ai denti fatto ieri?».
Francis Edgeworth, un economista del XIX secolo, pensò che la soluzione a questioni simili fosse facile e potesse essere rappresentata matematicamente attraverso un grafico. Immaginandosi un «edonimetro», uno strumento capace di misurare il livello di piacere o dolore provato da un soggetto in qualsiasi momento dato, l’utilità esperita darebbe un valore diverso momento per momento a seconda dello stato che stiamo sperimentando. I risultati potrebbero quindi essere rappresentati su un grafico in funzione del tempo. Al minuto 15, piacere 8, al minuto 23 piacere 6, ecc.
A questo punto, la risposta al quesito «quanto dolore o piacere hai provato, rispettivamente durante l’intervento o la domenica in spiaggia » sarebbe rappresentata dall’area sottostante la curva ottenuta unendo i vari valori.
È evidente che il piacere o dispiacere siano anche dipendenti dal tempo, come indicò correttamente Edgeworth, no? Più tempo sei felice e stai bene, più questa area si amplia, corretto?
Sì e no.
Ormai ci siamo abituati ai paradossi della mente e se mi segui da un po’, non ti stupisce più vedere come essa a volte distorca gli eventi. Cerchiamo di capire meglio, seguimi.
Regola “picco-fine” e disattenzione per la durata
Gli esperimenti di Daniel Kahneman ci dimostrano, ancora una volta, che la nostra elaborazione dell’esperienza non è affatto semplice e lineare.
In una ricerca condotta da lui e Redelmeier, ad alcuni pazienti che dovevano sottoporsi a colonscopia (quando ancora non si davano farmaci per ridurre il dolore) venne chiesto ogni 60 secondi di indicare il livello di dolore che provavano al momento. Zero significava «nessun dolore» e 10 «dolore intollerabile». Ovviamente, l’esperienza di ciascun paziente variò parecchio durante la procedura. In tutto, esaminarono 154 pazienti con durata degli esami assolutamente variabile: da quattro a sessantanove minuti.
Tutti ci aspettiamo che, se i livelli di dolore sono simili fra A e B, ma B svolge un esame molto più lungo, quest’ultimo sarà quello che ha sofferto di più. In questo caso, l’«area sottostante la curva» è chiaramente più estesa per lui che per A.
Tuttavia, al termine dell’esame, ai partecipanti fu chiesto di valutare la «quantità totale di dolore» che avevano percepito durante la colonscopia. Ovviamente, si intendeva la somma totale della sofferenza provata, che avrebbe riprodotto i totali dell’edonimetro. Invece, incredibilmente, i pazienti non fecero niente del genere.
Emersero, al contrario, dati sorprendenti che sembravano dipendere dalle due regole seguenti:
- Regola del «picco-fine»: la valutazione globale era prevedibile attraverso la media dei livelli di dolore riferiti nel momento peggiore dell’esperienza e al suo termine.
- «Disattenzione per la durata»: la durata della procedura non aveva alcun effetto sulla valutazione del dolore totale.
Questo significa che se il livello di dolore peggiore raggiunto dal paziente A e B era 8 su 10, ma A aveva terminato l’esame con uno stato di dolore quantificabile a 7, mentre per B l’ultimo stato prima della fine della colonscopia era stato molto meno intenso e quantificabile come 1, la media fra picco e fine era molto diversa fra i due. Rispettivamente 7,5 e 4,5.
In linea con la regola appena enunciata, era il paziente A a registrare un ricordo peggiore rispetto a B, nonostante il secondo avesse avuto un esame molto più prolungato (e la sua relativa area sottostante fosse ben più grande).
In pratica, ci sono due tipi di misure che, invece che essere ben correlate fra loro, danno due risultati molto diversi. Da una parte l’edonimetro ci dice che con valori di dolore simili e durata doppia, è B che deve soffrire di più ed avere ricordi peggiori. Dall’altro, la valutazione retrospettiva dei due pazienti che dimostra come la durata non abbia alcun influsso, mentre a determinare la valutazione totale sono la media picco-fine. A aveva avuto la sfortuna di terminare la colonscopia in modo brusco, in un momento di fastidio piuttosto alto, B aveva avuto una maggiore durata, ma una fine più graduale, dove il dolore finale era quasi nullo.
Insomma, contro ogni previsione, era A ad avere il ricordo peggiore.
Se un medico volesse lasciare una migliore sensazione al paziente (e una ridotta avversione all’esame), dovrebbe, in maniera controintuitiva, fare più attenzione a ridurre il picco massimo di dolore esperito piuttosto che la durata. E cercare di terminare l’esame in modo graduale, quindi riducendo la quantità di dolore nel momento finale.
Il Sé esperenziale e il Sé mnemonico
In pratica, è come se esistessero due Sé: uno che vive le cose sul momento e uno che le ricorda. E le loro valutazioni, pur avendo esperito le stesse identiche cose, non coincidono affatto.
Il Sé esperienziale è quello che risponde alla domanda: «Fa male, adesso?» Il Sé mnemonico è quello che risponde alla domanda: «Com’è stato, nel complesso?».
È vero che noi viviamo momento per momento, ma è altrettanto certo che i ricordi sono tutto quello che possiamo conservare della nostra esperienza di vita; quando ripensiamo alla nostra esistenza, è il Sé mnemonico a dominare.
Quante volte vi è capitato di dire o sentire, ad esempio a proposito di un libro o di un film, che “il finale ha rovinato tutto”? Magari avete passato due ore a guardare sullo schermo una storia avvincente, ma l’ultima parte è stata deludente e vi rimane un brutto ricordo. Se ragionassimo col Sé esperenziale, in realtà, dovremmo dire che la nostra esperienza è stata decisamente bella, perché l’area sotto l’edonimetro è piuttosto ampia, avendo passato con piacere la stragrande maggioranza del tempo. Eppure, non è questo che rimane impresso.
Ciò significa, dunque, che il Sé esperienziale non conta nulla, pur essendo quello che vive realmente le situazioni? La sua voce viene zittita dal Sé mnemonico che, anche se sbaglia, è colui che gestisce ciò che apprendiamo dalla vita e prende le decisioni.
Quindi, non è vero che impariamo dall’esperienza, ma apprendiamo dal ricordo (sbagliato) della stessa?
I risultati di questo esperimento possono lasciare perplessi, eppure sono stati confermati da altri con la stessa logica sottostante. Fu la memoria a decidere cosa fosse preferibile o meno, basandosi sulla regola picco-fine e non sulla durata e sulla percezione di dolore totale secondo l’edonimetro. Vi era una differenza fra Sé esperenziale e Sé mnemonico o, se vogliamo, che è lo stesso, fra utilità esperita e utilità decisionale.
Ma perché capita questo? Di chi è la colpa?
Ancora una volta, dobbiamo chiamare in campo il Sistema 1. Quando valuta le esperienze vissute, non è intento a fare le somme dei singoli momenti, ma ne prende alcuni come esemplari, prototipici. Ad esempio, il periodo del picco e quello della fine.
Può sembrare poco utile non porre attenzione alla durata dei momenti di piacere o dolore, tuttavia, a livello biologico può avere senso che si dia massima importanza nel registrare l’intensità di una sensazione, più che la sua durata.
Questo è stato studiato e dimostrato anche nei ratti.
Esperienza e memoria
Sembra proprio, quindi, che l’utilità decisionale (in altre parole, quanto sia funzionale e vantaggiosa per noi la decisione) non corrisponde all’utilità esperita (quanto sia stata piacevole o dolorosa, nella realtà, l’esperienza); memoria e vissuto non viaggiano sulla stessa lunghezza e la prima rischia di farci prendere scelte che sono più dannose per noi semplicemente perché la media picco-fine e l’ignorare l’effetto della durata ci rendono il ricordo meno spiacevole.
Insomma, non possiamo essere certi che le nostre preferenze rispecchino i nostri interessi, nemmeno quando si basano sull’esperienza personale. Gusti e scelte vengono influenzati dai ricordi, e questi sono spesso errati.
E ciò dipende dal funzionamento stesso della nostra mente che ci porta a scelte incoerenti. Siamo convinti di volere dolori brevi e piaceri duraturi. Ma quando poi ci troviamo a fare scelte, ci basiamo sulla memoria che è una funzione del Sistema 1. E quest’ultimo si è evoluta in modo da considerare il momento più intenso di un episodio piacevole o spiacevole (il picco) e le sensazioni finali.
Valutazione delle vite
Può sembrare strano ma, se ci pensiamo, è la stessa cosa che capita quando ascoltiamo le storie di vita delle persone. Kahneman fa questi due esempi: quando sentiamo che una madre che non vedeva più la figlia da molti anni è morta, vogliamo sapere se poco prima di morire abbia potuto riconciliarsi con lei. Come se contasse più quell’ultimo momento (fine) piuttosto che i tantissimi altri vissuti nel dolore.
Addirittura, ci preoccupiamo anche di eventi che modificano la storia di persone già decedute. Un uomo è morto credendo che sua moglie lo amasse e invece scopriamo che ha avuto una lunga relazione con un amante ed è rimasta con il marito solo per i suoi soldi: compatiamo il marito, nonostante di fatto, lui, abbia avuto una vita felice e l’area della curva che rappresenta la sua felicità sia ampia.
Gli errori cognitivi comandati dalla memoria si ripropongono, quindi, anche quando analizziamo le esistenze altrui. Alcuni altri esperimenti lo provarono, dimostrando quanto allungare la vita di una persona felice, persino raddoppiarla, non aveva alcun effetto sull’analisi della sua felicità totale. Anzi, se gli ultimi anni erano felici, ma un po’ meno dei precedenti, la felicità totale veniva considerata più bassa!
Questi risultati venivano riconfermati con partecipanti differenti agli esperimenti, a dimostrazione che si tratta di una tendenza generalizzata non dipendente da età, titoli di studio o altro.
Anche qui, erano all’opera la disattenzione per la durata e l’effetto picco-fine. Perché è come se noi ci rappresentassimo delle porzioni prototipiche di tempo, dei frammenti esemplari di un’esistenza, non tutta la sequenza completa. Perciò, la «felicità totale» che ne deriviamo equivale alla felicità di un periodo tipico della vita, non alla somma della felicità totale provata durante l’intera esistenza.
Assurdo? Sì, ma molto umano.
Valutazione delle vacanze
Addirittura, si può dire lo stesso delle ferie. È il Sé mnemonico a decidere le vacanze, non quello esperenziale! In una ricerca si chiese a degli studenti di tenere un diario giornaliero delle loro esperienze durante le vacanze e di dare anche una valutazione globale al termine delle stesse, chiedendo se intendessero ripeterle oppure no.
I risultati mostrarono che i desideri rispetto alle vacanze future erano interamente determinate dalla valutazione finale, anche quando essa non rispecchiava adeguatamente la qualità del vissuto reale. La gente sceglie in base al ricordo quando deve decidere se ripetere o meno un’esperienza.
Forse questo ci spiega anche perché alcune persone sono più intente a fare foto che a godersi quello che stanno vivendo. Stanno accumulando prove per dire che quella vacanza è stata memorabile, persino se non l’hanno vissuta completamente!
In fondo, basta provare a farsi questa domanda per comprendere l’importanza del nostro Sé mnemonico. Se ti dicessero che, alla fine di una villeggiatura memorabile, non avrai foto e video né ricorderai nulla, pagheresti lo stesso per un’esperienza simile?
Non so cosa scegliereste, ma è probabile che molti di voi si siano fermati a pensarci. Quanto abbassa il piacere della vacanza la perdita del nostro sé mnemonico, persino se quello esperenziale se la gode un sacco? E sono certa che molti “postatori” compulsivi sui social non la farebbero mai se non potessero dire a sé e agli altri che hanno vissuto un’esperienza “wow” 🙂
Aspetti che incidono sull’esperienza e sul giudizio
Quando si misura il benessere delle persone, spesso lo si fa su quesiti di questo tipo: “Tutto considerato, quanto sei soddisfatto della tua vita nel suo complesso, in questo periodo?”.
Ora, se hai seguito il discorso fatto fin qui, ti sembrerà evidente che tale domanda non riflette benissimo la reale sensazione di felicità provata dalle persone.
Il Sé mnemonico non si è dimostrato buon testimone delle esperienze vissute.
Possiamo dire, anche in tale caso, che esistono due misurazioni differenti:
- il benessere provato vivendo la propria vita
- il giudizio che si esprime valutando la propria vita
Sembra che alcuni aspetti abbiano più effetto sulla valutazione della propria vita che sulla reale esperienza vissuta. E viceversa.
Uno di questi è il livello di istruzione raggiunto. Un maggior grado di istruzione è associato a una più alta valutazione della propria vita, ma non a un più alto benessere esperito. Anzi, negli Stati Uniti, ad esempio, i più istruiti tendono a percepire maggiore stress.
Al contrario, la cattiva salute influisce molto più sul benessere realmente provato che sulla valutazione di vita. Inoltre, forse non sorprenderà chi ha figli sapere che spesso i genitori affermano di provare stress e rabbia, ma gli effetti avversi sulla valutazione della vita sono inferiori. In modo simile, ma in positivo, praticare una religione influisce di più sul benessere esperito che sulla valutazione di vita.
Da questo tipo di ricerche era emersa anche una risposta al famoso quesito: “il denaro dà la felicità?”. Certamente, essere poveri rende infelici, mentre la ricchezza aumenta la soddisfazione per la qualità della propria esistenza, ma non migliora (in media) il benessere esperito.
Cioè, sicuramente la grave indigenza amplifica gli effetti percepiti di altre disgrazie, come ad esempio le malattie, il divorzio o la solitudine e riduce gli effetti benefici di alcuni piaceri, come il riposo del weekend.
Tuttavia, il livello economico oltre il quale la felicità percepita non aumenta più sembrava essere (in America, al momento della ricerca) un reddito familiare intorno ai 75.000 dollari nelle aree ad alto costo della vita. Come mai? Un’interpretazione che era stata data era che un reddito maggiore fosse associato a una ridotta capacità di godersi i piccoli piaceri.
Quindi, anche in questo caso vi è un chiaro contrasto tra gli effetti che il reddito ha sul percepito e sulla soddisfazione di vita. Un reddito più alto produce una valutazione per la qualità della propria esistenza che è ben superiore ai suoi reali effetti positivi sull’esperienza.
La sintesi di tutto questo è un rafforzamento di quanto già detto: la valutazione sulla qualità della vita e la reale esperienza della stessa sono probabilmente correlate, ma comunque differenti.
Macchine, clima e salute
La distanza fra ciò che sentiamo realmente e come valutiamo la nostra vita e i piaceri che da essa traiamo non riguardano solo i soldi o il dolore, ma un po’ tutto.
Ad esempio, mentre molti sono convinti che il clima abbia un effetto importante sulla felicità, aiutando di più i cittadini di posti con meteo clemente, questo non è affatto vero. È il Sistema 1 che prontamente si focalizza su un singolo aspetto (per velocizzare e semplificare le risposte) e vi dà una grande importanza, sostituendo una piccola parte con il tutto. Su qualunque aspetto della vita indirizzi l’attenzione, esso apparirà determinante nella valutazione globale. Questa è quella che Kahnemn chiama l’«illusione di focalizzazione». Che, in sintesi, significa che niente, nella vita, è importante come pensiamo che sia.
Di fatto, ci concentriamo su un aspetto, assegnandovi troppo peso rispetto a tutti gli altri determinanti della felicità.
Questo capita un po’ per tutto.
Ad esempio, se ti chiedo: “Quanto piacere trai dalla tua automobile?”, la tua risposta dipenderà da quanto ti piace la tua macchina e quanto te la godi. Il problema è: “Quando te la godi?”: Non così spesso come credi. Lo fai, principalmente, quando ci rifletti sopra. Cioè, non molto spesso (a meno che tu non sia fissato!).
Se ci pensi, nella vita reale, mentre guidi, non stai tutto il tempo a goderti la tua macchina, ma sei concentrato su mille altre cose e l’umore è dipendente da queste, non dalla tua macchina. Se c’è traffico, se è stata una buona o cattiva giornata, se stai chiamando qualcuno, se stai andando a casa a rilassarti o fuori per un’ulteriore cena di lavoro…
Insomma, eri convinto di rispondere alla domanda: «Quanto piacere trai dalla tua macchina?” e invece hai risposto alla domanda “Quanto piacere trai dalla tua macchina quando ci rifletti sopra?». E non è la stessa cosa.
Anche qui c’è una specie di disattenzione per la durata. La sostituzione ad opera del Sistema 1 ti ha indotto a ignorare il fatto che raramente rifletti sulla tua macchina. Magari ti piace molto, ma non te la godi così spesso come credi perché sei intento a viverti altro.
Se pensi a quanto sia bello vivere in paesi dal clima caldo, è perché ti immagini escursioni estive o un clima invernale mite. Ma se risiedi in uno di questi paesi e ti si chiede quanto sei soddisfatto della tua vita, non è al clima che penserai. E, certamente, fai meno escursioni estive di quanto non immagini uno che vive in altri climi. Anche qui, si esagera l’importanza di alcuni aspetti, dandovi un peso eccessivo rispetto al reale.
Lo stesso principio vale anche con gli aspetti negativi. Se pensi a qualcuno con condizioni di salute negative, tenderai a immaginarlo sempre triste. In realtà, è probabile che quella condizione lo affligga molto appena insorta e poco dopo, ma nel tempo le persone si abituano e trovano nuovi motivi di soddisfazione molto più spesso di quanto chi non ne è afflitto pensi. A meno che la sua condizione non implichi dolore cronico o depressione grave.
Insomma, nella maggior parte dei casi, anche in situazione di patologie, il benessere esperito non differisce dalla popolazione sana. Mentre è differente la valutazione della propria vita, influenzata molto dall’evento a cui si pensa e a cui si dà un peso superiore a quello che si prova nella quotidianità.
Miswanting
Sembra che il Sé mnemonico sia soggetto a una forte illusione di focalizzazione riguardo alla vita che il Sé esperienziale, invece, sopporta molto più serenamente.
Questo, però, porta anche a ciò che Daniel Gilbert e Timothy Wilson definiscono come “miswanting” (desiderio errato): scelte sbagliate che nascono da errori di previsione affettiva.
L’illusione di focalizzazione ci rende inclini ad esagerare l’effetto di alcune circostanze sulla nostra futura felicità. Spesso si dà un peso eccessivo a condizioni (come la bella macchina) che – nella realtà – incidono molto poco sul nostro umore, per poco tempo.
L’illusione di focalizzazione determina un bias a favore di beni ed esperienze che all’inizio entusiasmano, ma alla fine perdono il proprio fascino. Al contrario, situazioni che incidono regolarmente e per lungo tempo vengono valutate meno di quanto dovrebbero. Si tratta sempre della disattenzione per la durata.
Conclusioni
Insomma, il Sé mnemonico racconta storie e compie delle scelte nelle quali non viene data importanza al tempo. Ciò che viene considerato sono, piuttosto, alcuni momenti critici come l’inizio, il culmine e la fine; la durata è trascurata.
Allo stesso modo, spesso uno stato è rappresentato dalla transizione a esso. Ad esempio, se compri una nuova casa, proverai felicità per un po’ di tempo, ma poi l’effetto tende a scemare mano a mano che ti abitui alla condizione, Quando, invece, valuti l’influsso che questo avrà sulla tua felicità, pensi all’entusiasmo che proverai durante il passaggio da una casa meno bella ad una più desiderata, non al momento in cui ti sarai abituato.
L’errore che si commette con l’illusione di focalizzazione consiste nell’attenzione per attimi specifici e salienti e nella disattenzione per quello che accade negli altri momenti.
Ci sono, quindi, potenziali conflitti tra il Sé mnemonico e gli interessi del Sé esperienziale. La disattenzione per la durata e l’effetto picco-fine che alterano l’utilità decisionale originano dal Sistema 1. Il Sistema 2 è convinto che la durata sia importante, ma la nostra memoria dice il contrario.
Questo ci fa capire come le valutazioni che facciamo del passato siano inadeguate nel guidare il processo decisionale, visto che il tempo ha invece un effetto importante, almeno mentre viviamo le cose.
Allo stesso modo, è pur vero che la gente si identifica con il proprio Sé mnemonico. Non possiamo, da una parte, ignorare ciò che la gente vive davvero e, dall’altra, ciò che ricorda e a cui dà importanza come base per valutare la sua felicità.
La valutazione su quale dei due Sé debba prevalere porta con sé riflessioni quasi esistenziali che, comunque, hanno un peso importante in alcuni aspetti come, ad esempio, nelle scelte politiche. Ma anche nelle nostre decisioni di vita e di lavoro.
Forse dovremmo focalizzarci su ciò che desideriamo davvero (vivere sereni o ricordarci di esserlo stati?) quando prendiamo le nostre decisioni e capire come funziona il nostro cervello che, spesso, ci illude che qualcosa ci possa dare felicità, ma si concentra solo sul primo momento e non sugli effetti duraturi nel tempo.
A cosa vogliamo dare più importanza? Credo sia un dilemma che ciascuno debba risolvere dentro di sé.
Se ti piace il tema, leggi qui tutti gli altri articoli sui bias cognitivi.
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