
Nel precedente articolo abbiamo visto cosa sia la cultura dell’innovazione ed alcuni suoi aspetti essenziali. Proviamo ad entrare più nel dettaglio e a dare qualche indicazione pratica su quali strategie sia necessario implementare per iniziare a lavorare con un vero spirito innovativo all’interno dell’organizzazione.
Innovazione, non problem solving
Uno dei problemi principali delle aziende occidentali, evidenziato anche nel libro “Essere creativi” da De Bono[1], è la tendenza a non occuparsi del miglioramento fino a che non insorge un problema. A quel punto, il sistema entra in allarme e si cerca di risolvere (a volte semplicemente “mettere una pezza”). Per il resto, l’idea generale è che, finché le cose vanno bene, non ci sia bisogno di mettere mano al meccanismo che funziona.
Purtroppo, questa non è un’analisi corretta per tre motivi:
- Non c’è mai un momento “migliore” per perfezionarsi ed innovare, ogni situazione è buona e dovrebbe essere sfruttata. Confucio sosteneva che “Il momento migliore per piantare un albero era vent’anni fa. Il secondo momento migliore è adesso”;
- Quando il problema si presenta, solitamente l’urgenza è risolverlo, non trovare modi ancora migliori per lavorare. Non se ne ha neanche il tempo e la lucidità mentale. A meno che la soluzione non coincida obbligatoriamente con un miglioramento, difficilmente si prende lo spunto dalla difficoltà per evolversi;
- L’innovazione è cambiamento, questo è indubbio. Per innovare non basta reagire a un problema per ritornare all’equilibrio precedente, ma creare qualcosa di nuovo. Ci vuole una visione dinamica e proattiva. In un mondo che cambia sempre più in fretta, dove i competitor vincono sulle velocità e il cambio di prospettiva, limitarsi a risolvere problemi non ci porterà lontani. Come dice ancora De Bono, bisogna imparare a surpetere, non semplicemente a competere.
Perciò mettere in discussione regolarmente i propri assunti, il proprio modo di procedere, i beni che si producono e le regole che si danno per scontate porta un vantaggio ineguagliabile e aiuta a creare quell’adattabilità che oggi è più che mai una competenza necessaria.
Il focus sul bisogno del cliente
Lo so, è ormai un principio che dovrebbe essere conosciuto da tutti e dato per scontato, ma non lo è. Per nulla. Quindi ripeterlo non è affatto inutile. L’idea è semplice: il mondo cambia, la cultura si modifica, i bisogni delle persone con essa. Emergono nuove tecnologie e mezzi per affrontarli. Vivere come se la gente e il mondo rimanessero sempre uguali a se stessi non solo rappresenta una visione miope e poco adattiva, ma fa perdere moltissime occasioni.
Il bisogno del cliente deve sempre essere il centro del focus; immedesimandosi nelle sue necessità si può capire dove migliorare, cosa cambiare, come soddisfare meglio le aspettative e i desideri.
Questo è vero per le aziende così come per i professionisti, indipendentemente dal prodotto o servizio che si offre.
Ricordo ancora come, ai tempi in cui frequentavo la scuola di specializzazione in psicoterapia, mi insegnassero che se un paziente mandava un sms, questo aveva un significato di cui tenere conto. E, magari, interpretare.
Certo, negli anni in cui i cellulari erano ancora una novità e gli sms erano riservati a pochi intimi amici, questo aveva un suo senso logico. Oggi, che siamo completamente immersi nella tecnologia e molti giovani ci sono proprio nati (e gli altri ci si sono adattati velocemente) interpretare il significato di un whatsapp inviato per chiedere un incontro farebbe sorridere.
La cultura cambia e noi dobbiamo sapere adattare il nostro lavoro ad essa, in qualunque ambito. Non facciamo l’errore di pensare che il concetto di cambiamento e innovazioni riguardi solo certi settori.
L’utente è al centro e l’obiettivo deve essere realizzare meglio i suoi bisogni o creare un’esperienza di acquisto sempre più piacevole e semplice.
Riduzione delle gerarchie
Un’organizzazione che voglia veramente innovare deve essere il più snella possibile. Le gerarchie, invece, ingessano la struttura. Naturalmente, l’azienda non può essere completamente piatta, ma in alcune imprese ci sono ampi margini di miglioramento per rendere più flessibile l’organizzazione. Quanta più verticalità esiste, quanto meno liberamente circolano le idee e le comunicazioni; e la velocità, che deve essere ormai una caratteristica essenziale del processo, rischia di perdersi lungo il percorso. Come una macchina che, invece di percorrere un rettilineo, deve coprire la stessa distanza facendo continuamente gimkane.
In una struttura più “piatta”, c’è più autonomia decisionale delle persone e maggiore libertà di espressione; è la competenza a dominare, non il titolo o il ruolo.
Naturalmente, i leader esistono e devono continuare ad esserci; anzi, devono esercitare un ruolo per certi versi anche più complesso essendo chiamati a guidare, collaborare, confrontarsi con più persone e fare sintesi. Ma il risultato è un contatto più diretto e consapevole con le persone e con i problemi che si incontrano.
E naturalmente cambia anche il ruolo dei “sottoposti”; da semplici esecutori a parte attiva e responsabile del processo.
La condivisione di idee e informazioni
Questo punto è in parte una conseguenza di quello precedente.
Se volete essere innovativi, scordatevi le gerarchie militarizzate con il capo al vertice e i sottoposti in attesa di ordini da eseguire senza sapere il perché. Innovazione corrisponde necessariamente anche a circolazione di idee e informazioni. Il team deve evolvere insieme e deve avere il senso di ciò che accade, di quali siano i valori condivisi e gli obiettivi. E questo è più facile se si riducono le gerarchie.
Le informazioni devono circolare perché la velocità e flessibilità oggi sono una necessità, non un di più.
Più menti, soprattutto se differenti fra loro e con diverse competenze, migliorano la capacità di vedere soluzioni.
Organizzazione perfetta
Può sembrare in contraddizione con il principio precedente, eppure è il suo naturale correlato. Condivisione e flessibilità non devono fare rima con caos, altrimenti l’innovazione si blocca nelle sacche della confusione.
Per essere fluidi, bisogna avere adottato un sistema di gestione della comunicazione e di passaggio di informazioni veloce, snello, ma funzionale. Un sistema chiaro e condiviso che agevoli i passaggi; un’organizzazione che sistematizzi i processi per evitare che ogni volta si reinventi l’acqua calda e vada perso un patrimonio di conoscenze e know how già disponibile in azienda. Che spesso si perde perché i reparti o i settori dell’organizzazione non si parlano e non condividono informazioni e processi che farebbero risparmiare tempo a tutti.
Un metodo per rendere l’organizzazione estremamente efficiente è il lean thinking. Ma se ne possono trovare altri, purché perfettamente adattati alla struttura su cui si deve innestare e i cui valori siano fondamentalmente condivisi.
Lo stesso dicasi in merito alla sperimentazione, che va intesa non come un procedere a caso, ma secondo metodi convalidati e precisi. La metodologia impiegata deve prevedere sistemi di misurazione e validazione dei risultati, che diano la possibilità di apprendimento, tempi e costi certi.
È ora di rendersi conto che creatività e organizzazione sono due facce della stessa medaglia dell’innovazione. Carenze in uno dei due aspetti appesantisce e trascina giù anche l’altro. La parte più complessa è trovare il migliore equilibrio fra queste due necessità.
Uno spazio per liberare le idee (progetti paralleli)
Forse può sembrare fantascienza, ma l’idea di Google (e ormai non solo) di permettere ai dipendenti di prendersi una quota del tempo di ufficio (quindi regolarmente pagato) per lavorare a progetti personali collegati al know-how aziendale può fare veramente la differenza fra un’azienda discreta e una veramente disruptive con una mentalità sempre aperta all’innovazione.
Le persone, ad esempio, possono lavorare a progetti collaterali durante l’orario di ufficio, da soli o in gruppo, avendo a disposizione un budget per la sua implementazione. Ma può essere anche che si lascino delle ore di lavoro remunerate per fare qualcosa per sé, legato ai propri interessi, senza collegarlo direttamente al lavoro. Tuttavia, spesso questa maggiore creatività e competenza che si crea, viene trasferita anche sul lavoro. Magari dando vita a proposte di nuovi tool da usare, competenze da mettere in campo e così via.
Perché funziona?
- I progetti paralleli (Side Projects) permettono di sperimentare personalmente nuove tecnologie prima di suggerire alla tua azienda di implementarle. Il dipendente, d’altra parte, è colui che meglio di tutti conosce le necessità dell’organizzazione e cosa può aiutarla a velocizzarsi.
Ormai la selva dei software disponibili per ogni necessità è molto intricata, ad esempio. Non è quindi meglio se un tuo impiegato ha già sperimentato alcuni di questi e sa indicarti ciò di cui avete realmente bisogno? O preferisci metterti a cercare decine e decine di demo gratuite a caso e poi sceglierne una sperando di averci azzeccato? - Avere progetti paralleli permette ai tuoi dipendenti di liberare più creatività ed essere più felici sul lavoro. Questo, a sua volta, li rende più legati e fedeli all’organizzazione e più produttivi. Vuoi mettere sentire di avere il controllo (e l’approvazione) di un tuo progetto rispetto alle lunghe ed estenuanti maratone di negoziazioni su ciò che si può e non si può fare? O, ancora peggio, rispetto ad ordini calati dall’alto senza nessuna considerazione di ciò che l’esperienza del personale può apportare all’impresa?
Il burnout è dietro l’angolo… - Aiuta a focalizzarsi meglio. Siamo tutti immersi in un mondo estremamente distraente. Riunioni (spesso inefficaci), distrazioni da app, telefonate, messaggi. Tutto oggi ci fa vivere in modalità reattiva, più che proattiva. Avere un tempo limitato da dedicare ad un proprio progetto aiuta a realizzare il tuo lavoro in modo efficace, poiché non hai altri momenti per dedicartici.
Devi per forza imparare a dirigere bene la tua attenzione, eliminare le distrazioni e dare priorità a ciò che è importante. E questa capacità poi si riflette anche negli altri ambiti di lavoro.
Qui e qui trovi alcuni esempi di aziende che utilizzano questa modalità per ottenere più coinvolgimento, partecipazione e produttività dai propri dipendenti. Naturalmente, questa è una tecnica più facile da adottare in grandi aziende; ma anche nel piccolo si può inserire modificando alcuni aspetti e tenendo a mente il principio di base.
Accettare i fallimenti
Evitare fallimenti ed insuccessi è impossibile. Tanto vale sfruttare il buono che c’è in essi. Dai fallimenti possiamo imparare, aggiustare il tiro, capire su cosa puntare e su cosa no.
Innovazione significa esplorare il nuovo, per questo il fallimento fa necessariamente parte del percorso. Viverlo come una tragedia da evitare a tutti i costi ci blocca dallo scoprire nuovi territori; una certa tolleranza per il “fallimento” è essenziale.
Chiaramente, ci dev’essere un atteggiamento corretto verso il “fallimento”. Accettarlo non significa tollerare l’incompetenza. Gli errori derivano dagli inevitabili margini di incertezza che qualsiasi processo innovativo comporta; quello che dev’essere bandito sono approssimazione e superficialità.
Perché possa avere un effetto positivo, il fallimento deve essere “misurabile”, cioè ci deve almeno dotare di dati che lo rendano analizzabile, affinché si possa imparare da esso.
Responsabilità, non colpa
La cultura innovativa richiede fiducia; lo sport preferito di molte aziende, sempre alla ricerca di chi ha commesso l’errore per portarlo alla pubblica gogna, deve essere bandito. Esistono dei responsabili, non dei colpevoli. E da un’analisi non giudicante possono emergere miglioramenti utili per tutti.
A volte gli errori sono necessari proprio per fare emergere delle pecche organizzative e vanno prese quindi come occasione per migliorare. Trovare il capro espiatorio, invece, creerebbe quel senso di errata sicurezza (in chi non è colpevolizzato) che difficilmente può portare al cambiamento utile.
Critica onesta
Così come il giudizio, la ridicolizzazione delle idee vanno fortemente scoraggiati. L’innovazione richiede libera circolazione delle idee e anche critica serena, cioè volta al miglioramento e all’analisi dei difetti di certe proposte, non della persona che le partorisce.
Chi lavora nell’organizzazione deve sentirsi in un ambiente protetto, libero di criticare ed essere criticato, ma avendo a mente che ciò di cui si discute è sempre l’idea, mai la persona. Altrimenti, chiunque prima o poi si distaccherà e non proporrà più niente, con grande perdita del potenziale di innovazione e creatività.
Sviluppo della creatività
La creatività, da sola, non fa innovazione. Ma senza è abbastanza difficile procedere in quella direzione.
Uno degli elementi essenziali per incentivare questa qualità è, sicuramente, la curiosità. Che, per essere incoraggiata, richiede di mettere in atto alcuni dei principi sopra esposti (non giudizio, side projects, ecc.)
Purtroppo, molto spesso si confonde la creatività con la sola eliminazione degli ostacoli e non anche con il suo sostegno attivo attraverso tecniche precise e metodi a volte anche complessi.
Di fatto, come sostiene anche De Bono nel libro precedentemente citato, fare qualche brain storming qua e là e dire: “liberatevi dalle inibizioni e non giudicate” non basta. Eliminare un freno non coincide con il liberare potenzialità in automatico; ci vuole anche qualcosa che poi stimoli l’immaginazione. Lo stesso De Bono elenca diverse tecniche molto interessanti e pratiche (purtroppo, sempre nel suo stile poco lineare e difficile da metabolizzare). Esse aiutano a mettere in discussione alcuni nostri schemi rigidi che non ci permettono di intravvedere nuove soluzioni e trovare differenti associazioni e possibilità.
Tuttavia, ancora troppo spesso nella nostra società si considera la creatività come una dote innata: o ce l’hai o non ce l’hai. E se non ce l’hai, nulla puoi fare per incrementarla. Concetto assolutamente sbagliato che De Bono confuta non solo con la teoria, ma anche con la pratica.
Naturalmente, è vero che alcuni sono più dotati e altri decisamente meno. Ma tutti possiamo sviluppare ed incrementare questo dono seguendo metodi ben precisi. E persino chi ha una mente più aperta, può incrementare le sue capacità.
Hackerare i propri processi
Uno dei metodi più recenti per creare innovazione è quello di svolgere degli hackathon in azienda. Si tratta di eventi-maratone che possono durare qualche giorno in cui sviluppatori e imprenditori si sfidano non-stop per creare nuovi prodotti e servizi, solitamente “digital”.
Lo scopo è trovare nuove idee per modificare, “hackerare” processi e metodi aziendali ormai non più performanti o validi. Un elemento non secondario, però, è anche il clima di collaborazione e il senso di partecipazione che attiva nella propria organizzazione. È estremamente motivante ed è una spinta, di per sé, ad innovare.
Non va usato come evento a se stante, quindi, una tantum per dare il contentino, ma come parte vera e propria di una vision aziendale orientata alla cultura d’innovazione.
Collaborazione
Dai punti precedenti emerge in modo abbastanza naturale una conseguenza: alla base dell’innovazione deve esserci uno spirito di collaborazione. Molti dei metodi elencati precedentemente vanno esattamente in questa direzione, nel creare un lavoro di squadra dove il confronto, anche duro, ma mai giudicante, faccia da base per l’emergere della creatività. Che, a sua volta, va messa a disposizione dell’intera comunità in modo che ciascuno possa percepire il proprio contributo all’azienda. E stimolare così di nuovo, in un circolo virtuoso, il senso di appartenenza e la collaborazione.
Creare una innovation community
Uno degli strumenti con cui questo senso di cooperazione può essere stimolato è una community dedicata; un luogo virtuale in cui tutti possono partecipare in una sorta di hackethon permanente. Un posto in cui mettersi alla prova per modificare prassi, abitudini e processi da svecchiare e da rendere più al passo con i tempi e le esigenze emergenti. Dove creare qualcosa di nuovo, possibilmente agevolati da quelle metodologie di stimolo alla creatività di cui parlavo più sopra.
Una comunità aperta, non un gruppo chiuso e dedicato. Perché ormai è chiaro che l’innovazione si può fare dove circolano le idee, dove tutti portano un contributo, visto che ognuno ha una visione della propria organizzazione da un punto di vista leggermente differente che va valorizzato, non compresso.
Una composizione sempre aperta e mutevole, in modo da sostenere le competenze più importanti per un certo progetto o un dato momento.
Questo significa conoscere bene le caratteristiche e potenzialità dei propri dipendenti, così come la visuale particolare che ciascuno può apportare su un determinato lavoro.
Cultura dell’innovazione: un equilibrio difficile
Come avrete forse capito, la cultura dell’innovazione si regge su un bilanciamento complesso fra aspetti spesso anche in apparente contrasto fra di loro: creatività/organizzazione, gestione del tempo e progettuale/flessibilità e adattabilità, responsabilità individuale/lavoro di gruppo, confronto sincero/eliminazione dei colpevoli.
Non a caso di innovazione tutti parlano, ma in pochi la realizzano compiutamente.
A volte ci si sente come equilibristi sospesi su un filo o trapezisti che devono calcolare al millimetro ogni mossa per unire sicurezza, precisione e performance spettacolare.
Innovatori non si nasce né ci si inventa. La natura può aiutare in alcune caratteristiche, ma poi è il continuo e difficile lavoro di mettere insieme in armonia aspetti differenti e complessi che fanno veramente la differenza.
[1] De Bono, E., Essere creativi. Come far nascere nuove idee, Il Sole 24 ore, Milano, 2003.
Interessante
Grazie! 🙂
Interessante e stimolante
Grazie, Fabio. Le regole sono apparentemente semplici, la parte difficile è applicarle 🙂