Intelligenza emotiva: una risorsa vincente per il lavoro

Aspetti psicologici, Intelligenza emotiva | 0 commenti

Ti starai chiedendo: ma perché mai parlare di intelligenza emotiva su un blog dedicato all’innovazione?

La risposta è semplice: perché mi occupo di psicologia dell’innovazione, di ciò che aiuta a creare un mindset innovativo e a raggiungere il successo nei propri progetti. E in un mondo in cui il lavoro non è più sicuro e la flessibilità, la capacità di reinventarsi e rinnovarsi sono sempre più competenze che ci permettono di surfare le onde alte di un ecosistema in cui regna l’insicurezza, parlare di intelligenza emotiva non è un vezzo da psicologi. Fa parte delle capacità fondamentali per avere successo sul lavoro. Tanto più quanto più esso consista in un’attività innovativa, in cui l’incertezza e la capacità di adattamento sono ingredienti essenziali.

La diffusione del concetto

Conosciamo questo concetto principalmente grazie a Daniel Goleman, il quale ne parlò in un suo libro del 1995 che ebbe un grande successo, “Intelligenza emotiva”. Ma in realtà il tema era stato trattato cinque anni prima dai professori Peter Salovey e John D. Mayer nel loro articolo “Emotional Intelligence”.
Essi definivano l’intelligenza emotiva come “la capacità di controllare i sentimenti ed emozioni proprie ed altrui, distinguere tra di esse e di utilizzare queste informazioni per guidare i propri pensieri e le proprie azioni”. Successivamente, ampliarono la loro spiegazione per tenere conto anche di altri aspetti, non solo quelli di percezione e regolazione: “L’intelligenza emotiva coinvolge l’abilità di percepire, valutare ed esprimere un’emozione; l’abilità di accedere ai sentimenti e/o crearli quando facilitano i pensieri; l’abilità di capire l’emozione e la conoscenza emotiva; l’abilità di regolare le emozioni per promuovere la crescita emotiva e intellettuale”.

Ma indubbiamente la grossa diffusione di conoscenza su questa competenza la si deve a Goleman che, successivamente al primo, ha scritto diversi trattati sul tema nelle sue varie sfaccettature. Quella che interessa a noi è la sua applicazione (e gli effetti che produce) nel mondo del lavoro e poi, più nello specifico, in quello dell’innovazione.

L’intelligenza emotiva non si impara a scuola

Una delle grosse difficoltà nel gestire una carenza in questa competenza è che, a differenza di aspetti tecnici del lavoro, non la si impara studiandola. Non è che non si possa apprendere; esistono dei training che hanno dimostrato – seguendo alcuni criteri ben specifici e non certo solo facendo formazione teorica – che tutti possiamo migliorare in questa abilità. Ma non sono così diffusi, soprattutto qui da noi. E men che meno le aziende italiane si preoccupano di inserirla nel sistema di apprendimento che riservano ai propri dipendenti, come se si trattasse di qualcosa di totalmente estraneo al mondo del lavoro.

Eppure lo stesso Goleman, nel suo libro “Lavorare con intelligenza emotiva” porta innumerevoli ricerche scientifiche che ne dimostrano l’efficacia nel risultare più produttivi sia come persona che come gruppo e nelle maggiori possibilità che dà di eccellere nella propria mansione, di qualunque tipo essa sia. Di fatto, se vuoi avere successo, è imprescindibile saperla maneggiare con cura.

Questo dimostra quanto sia un errore non considerarla come competenza da insegnare fin da bambini e, anche, sul posto di lavoro. Molte ore di inutili riunioni o di formazione di scarsa efficacia potrebbero essere meglio spese nel migliorare in questa abilità.

Il segreto del successo

Cosa influenza più di tutto una prestazione lavorativa eccellente? Se ti facessero questa domanda, probabilmente la tua risposta immediata sarebbe: “il QI”, cioè l’intelligenza logica della persona, la sua capacità di ragionamento razionale. Così non è, perché le ricerche mostrano come al primo posto stia un altro genere di intelligenza, quella emotiva.

Goleman porta a sostegno di questa tesi le analisi effettuate da molti esperti diversi in quasi 500 fra aziende, agenzie governative e organizzazioni non-profit sparse in tutto il mondo. Le conclusioni, indipendentemente dal Paese e dal tipo di azienda o ruolo analizzato, sono incredibilmente simili: l’intelligenza emotiva ha un ruolo di primo piano ai fini dell’eccellenza sul lavoro.

Il tutto misurato con dati numerici.

Un’abilità molto richiesta

Non è evidentemente un caso, quindi, se le soft skill più richieste entro il 2025, secondo il World Economic Forum, sono in buona parte relative all’intelligenza emotiva. Infatti, essa riveste sempre più importanza fra le qualità ricercate dai recruiter. Lo dimostra lo studio workplace trend 2018 realizzato dal Gruppo Sodexo, dal quale emerge che creare un ambiente di lavoro in grado di stimolare l’intelligenza emotiva sia un trend attualissimo. 

D’altra parte, questa è una competenza che abbiamo costruito e ci portiamo dietro da centinaia di migliaia di anni e da ben prima delle nostre capacità cognitive più elevate. Le abilità che ci permettono di dominare efficacemente noi stessi e di essere socialmente pronti sono radicate nel nostro patrimonio ereditario con lo scopo di consentirci sopravvivenza e adattamento.

Ma, come vedremo, i centri emotivi del cervello apprendono in modo differente da quelli in cui risiede il pensiero logico.

I fraintendimenti sull’intelligenza emotiva

Ma perché le aziende, allora, ignorano questa competenza e non le danno la priorità nelle attività di formazione e in quelle di selezione del personale? Forse perché non ne comprendono bene l’essenza e, di conseguenza, l’importanza. Probabilmente, è anche soggetta ad alcuni equivoci, che qui voglio chiarire:

  1. L’ intelligenza emotiva non corrisponde alla gentilezza.  Anzi, esserne dotati può significare anche, nei momenti giusti, essere capaci di chiarire e far affrontare al nostro interlocutore, in modo esplicito, alcune verità scomode che cerca di evitare;
  2. Avere questa competenza non significa certo essere emotivi, nel senso di mettere in mostra senza freni ogni tipo di sentimento; vuol dire, invece, essere capace di controllarli ed esprimerli in modo appropriato ed efficace, così da raggiungere gli obiettivi;
  3. Non è vero che le donne siano più dotate in questo aspetto. Intanto, si tratta di una competenza con molte sfaccettature, per cui si può essere più bravi in una o alcune di queste e meno capaci in altre. Se prendiamo, però, donne e uomini come gruppi, nell’insieme emergono punti forti e punti deboli. Ad esempio, mediamente le donne sono più consapevoli delle proprie emozioni, mostrano maggiore empatia e sono più abili sotto il profilo interpersonale. Gli uomini, invece (sempre parlando di media) hanno maggior fiducia in se stessi, sono più ottimisti e più capaci di adattarsi, e controllano lo stress meglio delle donne. Ma, in assoluto, sono sempre di più le somiglianze delle differenze. Su queste ultime, poi, bisognerebbe approfondire quanto incida l’aspetto socio-culturale che spinge femmine e maschi a sviluppare maggiormente alcune caratteristiche a discapito di altre.
  4. Non è vero che l’intelligenza emotiva sia una caratteristica genetica definita alla nascita senza possibilità di sviluppo. È invece vero che continua a svilupparsi durante tutta la vita, mano a mano che impariamo dall’esperienza. In questo ambito possiamo continuare a migliorare.

L’importanza di esserne dotati

Attenzione: se è un dato di fatto che le imprese diano poca attenzione cosciente a questo tratto e alla sua implementazione, non è però altrettanto corretto dire che, ad un qualche livello, non ne tengano conto. Questi sono tempi fragili, incostanti, soggetti a continui mutamenti, anche nel mondo del lavoro; di fronte a necessità (sempre più frequenti) di riorganizzazione, ridimensionamenti o anche selezioni per affrontare situazioni di cambiamento importanti, molto probabilmente ad essere scelti per restare o fare un salto di carriera saranno i migliori. E cioè quelli che, oltre alle competenze tecniche, sanno unire qualità relazionali, sociali e di gestione delle emozioni superiori agli altri. Perché, come si diceva, sono questi gli individui che tendono ad eccellere.

Le abilità che un tempo venivano considerate secondarie, oggi sono estremamente ricercate: la capacità di creare un team e l’abilità di adattarsi al cambiamento.

Tuttavia, pare che queste competenze, proprio nel momento in cui sono massimamente importanti, risultino meno frequenti nei giovani che diventano adulti. La nostra società, per diversi motivi, sta facendo crescere giovani più soli, inclini alla depressione e ad esplosioni di rabbia. Meno capaci di gestire la frustrazione e di essere consapevoli delle proprie emozioni e di come gestirle adeguatamente. Infine, meno fiduciosi in se stessi o motivati al miglioramento continuo.

Il cambio di passo

Con l’espandersi dei test per misurare il QI, prima, e quelli per analizzare la personalità, poi, fino ai primi anni 70 del ‘900 l’analisi delle capacità lavorative si basavano su questi due aspetti. Ma nel ’73, il professor David McClelland di Harvard porta una piccola rivoluzione. In “Testing for competence rather than intelligence”, l’autore introduce nuove variabili, molto più predittive dei parametri tradizionali con cui si volevano misurare la qualità delle prestazioni di un individuo sul lavoro e il suo successo nella vita.
L’ipotesi di McClelland era, invece, che le persone di successo si distinguessero da quelle nella media rispetto alle prestazioni lavorative grazie a una serie di competenze come l’empatia, l’autodisciplina e l’iniziativa. Tutti aspetti di quella che oggi chiameremmo intelligenza emotiva. Un’intuizione che si è rivelata assolutamente fondata.

Incidenza di QI e QE sulle prestazioni

Non che il QI non rappresenti minimamente un indicatore delle performance future, ma le predice in misura molto ridotta; è stato stimato che non incida per più del 25% sulla differenza di prestazione fra l’individuo mediocre e quello eccellente. Questo nella situazione migliore; in altri casi, la sua influenza è stata stimata ancora più bassa, addirittura nell’ordine del 5-10%. Più saliamo di livello professionale più questo si rivela vero. E c’è una spiegazione.

Quando si arriva a certi traguardi, è evidente che la selezione basata sulle conoscenze e competenze tecniche sia già stata fatta. Per raggiungere alcuni ruoli, bisogna necessariamente avere una certa preparazione. Sotto quell’aspetto, quindi, c’è un livellamento, anche se verso l’alto. A quel punto, è chiaro che ad incidere sull’avanzamento ulteriore, saranno altre caratteristiche che distinguono maggiormente gli individui. Quindi, per eccellere, QI e QE devono lavorare in sinergia.

D’altra parte, se ci pensi, è ciò che ci rende squisitamente umani. Un qualsiasi robot, se adeguatamente preparato, può dare prestazioni nell’ambito della conoscenza infinitamente superiori a quelle di qualsiasi uomo. Invece, nell’ambito della competenza emotiva, è peggio di un neonato ed è il motivo per cui l’intelligenza artificiale è ancora così indietro rispetto a certe prestazioni molto complesse che includono le abilità sociali e di riconoscimento delle emozioni.

L’intelligenza emotiva è una sola?

Anche se ha un nome che riassume tutto, l’intelligenza emotiva è contraddistinta da diversi aspetti e facoltà. Le quali hanno cinque caratteristiche:

Esse sono:

  • Indipendenti, perché ciascuna dà un proprio contributo specifico alla prestazione professionale;
  • Interdipendenti, in quanto ognuna, per esprimersi, attinge comunque, almeno in parte, da altre competenze;
  • Gerarchiche, cioè queste capacità si fondano le une sulle altre secondo una struttura ramificata per cui alcune sono la base di altre;
  • Necessarie, ma non sufficienti; per quanto siano essenziali per il successo lavorativo (e non solo), il possesso di tali abilità non garantisce automaticamente lo sviluppo delle competenze associate. Sul loro dispiegarsi concretamente, infatti, incidono anche fattori esterni quali il clima di un’organizzazione o l’interesse della persona per uno specifico lavoro;
  • Generiche; tutte queste competenze sono utilizzabili nei diversi campi lavorativi e professionali, anche se occupazioni diverse richiedono competenze differenti.

Quindi, per quanto tutte queste qualità siano utili in ogni contesto di lavoro, quelle necessarie possono cambiare per singola posizione o quando si sale nella gerarchia. 

Leadership e intelligenza emotiva

La leadership, la capacità di guidare gli altri non è pura competenza tecnica, ma rappresenta in grande parte un’abilità emotiva, poiché si tratta di ottenere che gli altri svolgano il proprio lavoro più efficacemente. Se non sei bravo in questo, abbassi il livello della prestazione del gruppo perché fai perdere tempo, crei rabbia, abbatti la motivazione e l’impegno facendo nascere astio e apatia.

Nei fatti, ciò che distingue un leader eccellente da uno mediocre sono la capacità di influenzare gli altri e di guidare un team, la consapevolezza politica, la fiducia in se stessi e la spinta a realizzare i propri obiettivi.
E non si tratta solo di competenze soft, come si crede. Concretamente, si trasformano anche in qualcosa di molto tangibile, cioè in guadagni per l’azienda.

Da uno studio svolto per definire l’impatto economico di tali abilità emergeva che, quanto più si saliva nella scala lavorativa, quanto più l’effetto era potente.
Nel caso dei lavori più semplici, gli individui che eccellevano rendevano tre volte di più rispetto ai meno dotati.
Salendo di complessità, fino ad un livello medio, un soggetto capace di prestazioni eccellenti era dodici volte più produttivo dei suoi compagni di lavoro meno capaci.
Ma quando si arriva ai lavori più difficili, anche confrontandosi solo con chi raggiungeva prestazioni medie, e non scarse, si otteneva comunque un vantaggio del 127%.

Questo è comprensibile tenendo conto quanto scritto in precedenza. Ad alti livelli, c’è già stata una selezione dei migliori dal punto di vista delle competenze tecniche. Ciò che inizia a fare veramente la differenza sono quelle emotive e il loro influsso è più forte perché le prestazioni degli alti dirigenti incidono economicamente molto di più quelle degli impiegati ai gradini inferiori.

Più abilità emotive hai, più hai successo

Poiché, come si è visto, le competenze sono fortemente interdipendenti, per avere un effetto veramente differenziante, i soggetti devono possedere più di una competenza emotiva. Chi eccelle, solitamente ha abilità ad ampio spettro su ognuno dei 5 ambiti in cui si differenzia l’intelligenza emotiva. Quando si raggiunge il punto critico, dato dall’ampiezza delle competenze presenti, dalla frequenza con cui si manifestano e dal loro grado di sofisticazione, si arriva d avere prestazioni straordinarie.

Naturalmente, è vero anche il contrario. Quando queste competenze sono ampiamente insufficienti, si rischia il fallimento nei propri obiettivi in misura tanto più grande quanto più deficitarie sono le abilità di questo genere.

Fra le mancanze più fatali per dirigenti di alto livello risultano, ad esempio, la mancanza di flessibilità e la difficoltà a creare relazioni interpersonali. Queste due carenze possono portare facilmente al fallimento poiché vi è incapacità di adattare il proprio stile ai cambiamenti nella cultura dell’organizzazione e di reagire al feedback riguardante aspetti del proprio comportamento da modificare o migliorare. Inoltre, toni troppo aspri, critici, insensibili o richieste eccessive allontanano coloro con cui si lavora. Ma altre caratteristiche mancanti sono spesso l’autocontrollo, l‘assunzione di responsabilità, l’integrità, intesa come seguire il bene comune e non agire per propri fini personali a spese degli altri.

Com’è strutturata l’intelligenza emotiva

Secondo Goleman, esistono alcune abilità che a loro volta ne ricomprendono altre. Ho provato a riassumere in uno schema la suddivisione delle competenze emotive per come le analizza l’autore. Ogni azienda e settore ha le proprie esigenze, per cui ciò che risulterà più vincente dipenderà da caso a caso.
Ma di qualunque ambito si tratti, anche quelli che possono apparire meno influenzati da aspetti emotivi, queste qualità faranno invece la differenza.

Vediamo come l’intelligenza emotiva si suddivida prima di tutto in “competenza personale” (il modo in cui controlliamo noi stessi) e “competenza sociale” (il modo in cui gestiamo le relazioni con gli altri). La prima, a sua volta, si ramifica in tre abilità: consapevolezza di sé, padronanza di sé, motivazione. La seconda è composta da empatia e abilità sociali. Tutte caratteristiche, a loro volta, che si diramano in competenze più specifiche, come si vede nella figura sottostante.

Figura liberamente tratta dalla suddivisione descritta nel libro “Lavorare con intelligenza emotiva” di Daniel Goleman

Come hai certamente capito, il tema è lungo e complesso. Per ora, abbiamo visto un’introduzione all’intelligenza emotiva e alla sua importanza nel mondo lavorativo, non solo personale.
Nei prossimi articoli vedremo più nel dettaglio le sue caratteristiche e suddivisioni e come esse incidano specificamente sulle prestazioni lavorative. In particolare, ne scopriremo anche l’effetto nell’ambito dell’innovazione. Poi approfondiremo il tema dell’empatia come fattore di successo, delle abilità sociali per influenzare gli altri e di quelle utili per creare legami.

Grazie per avere letto questo articolo. Se non vuoi perderti i prossimi, iscriviti subito alla newsletter.
Oppure lasciami un commento qui sotto. Per me i tuoi spunti sono preziosi!

0 commenti

Invia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Per potere inviare il commento è necessario leggere e accettare la normativa sulla privacy (vedi sotto)
Questo modulo raccoglie il tuo nome, la tua email e il tuo messaggio in modo da permetterci di tenere traccia dei commenti sul nostro sito. Per maggiori dettagli su come trattiamo i tuoi dati personali, prendi visione della nostra Informativa sulla privacy.